Mi hanno chiesto come lo storytelling può essere utilizzato all’interno di una campagna di crowdfunding. Ne sono usciti un po’ di appunti che penso utilizzerò in uno dei miei prossimi interventi.
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Mi hanno chiesto come lo storytelling può essere utilizzato all’interno di una campagna di crowdfunding. Ne sono usciti un po’ di appunti che penso utilizzerò in uno dei miei prossimi interventi.
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“È sufficiente una bella storia?”
L’interrogativo arrivava dalla prima fila. Con il sorriso imbarazzato di chi pensa di aver posto una domanda retorica, l’occupante il posto centrale, iniziava ad abbassare lentamente quel braccio con il quale si era prenotato per la prima domanda.
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“Sì ma io che lavoro in un ufficio pubblico come potrei applicare lo storytelling?”
La domanda arrivava da un giovane dirigente, posizionato all’angolo destro della seconda fila di quel piccolo auditorium. Giungeva dopo un mio intervento mirato a raccontare che non dovevano essere solo le grandi imprese ad utilizzare la metodologia del Corporate Storytelling, ma anche realtà meno strutturate e sicuramente dai budget in Comunicazione (qualora ci fossero stati) molto più contenuti.
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Di fronte ad una classe di studenti ho due obiettivi. Il primo trasferire loro un po’ di entusiasmo. Il secondo far capire che cos’è lo storytelling. Sembrano due cose non collegate tra loro, invece sono le due facce di una stessa medaglia che può raggiungere il cuore.
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“Come tutte le istituzioni, arrivavamo da un approccio formale, basato per lo più su convegni e pubblicazioni dal taglio piuttosto accademico, ma ci siamo resi conto che mancava qualcosa, mancava il ruolo del capitale umano… sono le storie di persone che fanno la differenza” mi dice con tono entusiastico Alessandro Rubini.
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O almeno così è per me.
C’è un elemento che fa da discriminante tra lo storytelling e la fiction. Questo si chiama autenticità. Lo storylelling lo si presenta come una modalità persuasiva che adotta il racconto per intercettare la sensibilità dei suoi fruitori, in primis i clienti. Duranti i miei incontri spesso mi viene posto proprio l’interrogativo legato alla veridicità o meno dei racconti che si fanno portatori con modalità diverse delle aziende con i propri brand.
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Se da quell’auditorium le parole del docente non si fossero trasformate in un entusiasmante racconto, Mivar, sarebbe rimasto uno dei tanti marchi citati durante un corso di strategie d’impresa. Allo stesso modo, se il mio primo capo non mi avesse fatto vedere come deve essere esposto il portfolio dei lavori realizzati, non credo che sarei riuscito a trasmettere le passioni e le professionalità che stavano dietro quei lavori. Di esempi ne avrei diversi da portare. Sono cambiati i tempi, le dinamiche economiche, gli strumenti di comunicazione, ma il problema di base rimane lo stesso: trasferire all’interlocutore quanto di buono si è fatto.
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Sembra un ossimoro. Cosa c’entrano le storie con i numeri? Perché servono dati, analisi, flussi e puntuali stime. C’è un’idea da valutare e un piano di sostenibilità da avvallare. Tutto corretto, fino a che però non viene accennato ad un altro aspetto. Questo si chiama anima di un progetto. Non è una visione filosofica del business, ma il terzo pilastro sul quale poggia. Un’idea deve essere innovativa, finanziariamente sostenibile e capace di coinvolgere a livello di empatia chi deve investirci del denaro. Con queste premesse mi appresto ad entrare nell’aula del prof. Giuseppe Pasciuti.
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Un’azienda è composta di una serie di elementi che vanno oltre i numeri di un bilancio e i grafici di un fatturato. I valori che la contraddistinguono, come la reputazione acquisita e il capitale umano, sono solo alcuni dei parametri spesso intangibili ma in grado di fornire il giudizio complessivo di un percorso d’impresa di cui si conosce l’origine e del quale si cerca di costruirne un futuro attraverso un’attenta strategia.
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Non è stata solo la sequenzialità a farmi scattare questo pensiero. Sta di fatto che leggendo prima l’articolo a firma di Fabrizio Patti su Linkiesta intitolato “Così i centri commerciali provano a battere l’ecommerce” (leggi qui) e immediatamente dopo “Un chilo e due di esperienze, per favore – Cosa rende felice il consumatore oggi?” pubblicato dalla redazione del blog di FrancoAngeli (leggi qui), ho provato a immaginare cosa potesse legare queste due situazioni.
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