Una platea di liberi professionisti. Tre episodi. Una risposta all’interrogativo “Di cosa sono fatte le storie?“.
Perché le storie sono fatte della stessa sostanza dei sogni, ma non solo.
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Una platea di liberi professionisti. Tre episodi. Una risposta all’interrogativo “Di cosa sono fatte le storie?“.
Perché le storie sono fatte della stessa sostanza dei sogni, ma non solo.
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Un’impresa non è l’atto costitutivo iscritto ad un registro, ma l’espressione vivente di un modo d’intendere la vita all’interno per tutti i suoi collaboratori e all’esterno, come riferimento territoriale e sociale di una comunità. È nel momento stesso che si adotta una metodologia narrativa in ambito risorse umane che si innesca un meccanismo virtuoso di non ritorno.
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“Mi raccomando lei deve essere come una spugna… osservi, chieda, impari e non smetta mai di essere curioso”. Era il 1998 e questa frase ancora oggi rappresenta per me un chiaro messaggio. A rivolgermela era stata l’allora responsabile dell’ufficio stage della Camera di Commercio di Verona, alla presenza di colui che sarebbe stato il mio tutor prima, il mio primo datore di lavoro immediatamente dopo, un grande amico per sempre.
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Mercoledì scorso è uscita questa intervista su Il Sole 24 Ore a firma di Luca Salvioli a Steve Clayton, storyteller di Microsoft. Vi invito a leggerlo perché ci sono più di un paio di passaggi interessanti che fa capire in cosa consiste la professione di storyteller e dei motivi per i quali si deve raccontare un’azienda. Buona lettura.
L’altra sera di fronte ad una sala piena di ragazzi interessati a capire le opportunità professionali legate a questa metodologia, ancora una volta è arrivata la sistematica domanda: “Ma quali competenze deve avere una persona per essere un buon storyteller?”.
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Qualche giorno fa, una persona che ha frequentato un mio corso sul Corporate Storytelling, ha pubblicato un post riprendendo la checklist che a mio avviso si dovrebbe sempre tenere a portata di mano quando si parla di narrazione d’impresa.
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“Si può applicare lo storytelling a un prodotto che presenta evidenti problemi? Tecnicamente sì. Eticamente (ma non solo) no“.
E in questo articolo scritto per To Be Continued, il blog di Nòva Il Sole 24 Ore dedicato al Corporate Storytelling, cerco di spiegarne i motivi.
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Dovrebbe essere una operazione propedeutica. Una condizione necessaria.
Prima di divulgare all’esterno il proprio racconto aziendale occorrerebbe condividerlo internamente. È questo il percorso che bisognerebbe seguire. Non è questione di priorità, ma di metodo.
Nella maggior parte delle imprese, l’operatività quotidiana fagocita tutto ciò che non ha a che vedere con scadenze, risultati e obiettivi. Tutto ciò rischia di far dimenticare da dove si è partiti e i traguardi fino a quel momento raggiunti. Non si tratta di ancorarsi ai ricordi, ma di mettere a fuoco la storia per fissare un presente e tracciare un futuro.
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“C’è differenza per un progetto di Corporate Storytelling se è un’azienda che opera nell’ambito B2B oppure in quello B2C?”
È una di quelle domande a cui vorresti rispondere con il suono di una sveglia. Non è inopportuna. È un perfetto assist invece per far capire che i paradigmi della narrazione applicata all’impresa sono diversi, molto diversi da quelli finora adottati dalle imprese.
Il Corporate Storytelling parla di persone, a persone.
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“Il racconto serve proprio a questo. Ha la capacità di riprendere un’identità. Magari pure di definirne una nuova. Attraverso lo storytelling andremo non solo a raccontare com’è iniziato il vostro viaggio, ma soprattutto fisseremo il punto preciso di dove siete arrivati”.
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